Riflessioni su “L’origine del pianismo brahmsiano”
- Pubblicato da Adolfo Capitelli
- il 22 Novembre 2013
- 0 Commenti
- Brahms
Quando un giovanissimo pianista qualche tempo mi fa mi domandò se ci fosse stato oltre a Chopin, un compositore che amò in modo molto profondo il pianoforte, risposi senza esitazioni che Johannes Brahms era sicuramente uno dei migliori esempi da riportare. Affermai, credo a ragione, che la filosofia musicale del compositore di Amburgo, sia orchestrale che cameristica, non poteva prescindere, ed anzi derivava la sua essenza dall’applicazione al pianoforte.
A quel punto per dare sostegno alla mia tesi riportai gli esempi del Primo Concerto per pianoforte e orchestra e delle Variazioni su un tema di Handel per orchestra, lavori che le bozze superstiti dimostrano aver avuto prima un antenato nella versione per lo strumento a tastiera. Nella vastità della letteratura pianistica ottocentesca, nella varietà dei metodi proposti da pianisti di calibro mondiale (all’epoca avrebbero forse detto europeo), e nell’epoca dei più grandi virtuosi che la storia pianistica ricordi, il pianismo tutto personale e originale di Brahms emerge, senza sfigurare, attraverso i due quaderni che compongono i suoi Cinquantuno Esercizi, che vennero definiti proprio da lui medesimo come “allegri rompi dita” e che risultano indispensabili per saper suonare le composizioni mature dell’autore stesso. Non si tratta certo di Studi che esprimono ideali espressivi elevati o che abbiano una eccezionale inventiva (come accade in Chopin) e non sono nemmeno un compendio di Esercizi atti a sviluppare quella tecnica pianistica trascendentale tanto cara a Liszt o Thalberg; è piuttosto un metodo in cui, attraverso l’esecuzione e la risoluzione di problemi tecnici, il compositore tedesco mirava a raggiungere l’indipendenza delle dita e delle mani, nonché un rafforzamento generale delle stesse.
In questi esercizi ritroviamo difficoltà quali i salti d’ottava, le ottave spezzate, arpeggi e accordi in posizione lata in grande abbondanza (a dimostrazione di una visione orchestrale della tastiera), il tutto riportato in frequenti disparità ritmiche delle due mani che spesso si scambiano la melodia e le correlate difficoltà espressive, soprattutto quando queste devono emergere nelle voci interne. E’ innegabile il valore tecnico di questi due volumi che sono alla base del pianismo brahmsiano, permeato di una profonda intimità, di un laborioso e denso contrappunto (in questo influenzato da Schubert e Schumann) di un senso di serafica contemplazione e al tempo stesso non privo di influssi derivanti dallo stile pianistico di Clementi e del maturo Beethoven.
A quel giovane pianista ho consigliato Brahms!
(Adolfo Capitelli, 22 novembre 2013)
0 Commenti