Riflessioni su “Lo studio da concerto”
- Pubblicato da Adolfo Capitelli
- il 7 Ottobre 2013
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- Studio
Nei primi decenni del XIX secolo, il pianoforte conobbe una fortuna smisurata anche al di fuori dell’ambito professionistico. I pianisti dilettanti si contavano a migliaia e nei paesi maggiormente vicini al mondo musicale una famiglia su cinque possedeva un pianoforte.
Questa mole imponente di musicisti non professionisti andava di pari passo con la richiesta da parte degli stessi di un repertorio da studiare ed eseguire. I concertisti e virtuosi dell’epoca, da Chopin a Kalkbrenner, da Moscheles a Liszt, da Czerny a Thalberg erano spesso al lavoro per soddisfare tali esigenze (dato che la pubblicazione al pari delle lezioni private rappresentava allora la maggior fonte di reddito per i musicisti). Uno dei generi di maggior fortuna fu lo Studio. Se nel XVIII secolo lo Studio aveva trovato la sua ragion d’essere soprattutto nell’utilizzo a scopo didattico (basti ricordare il Gradus ad Parnassum di Clementi, precursore della tecnica pianistica), nei primi decenni dell’Ottocento, grazie soprattutto al genio polacco di Chopin, si erge a genere concertistico, forma assimilante la funzione didattica e quella artistica allo stesso tempo. Il più grande connubio di tali prerogative fu raggiunto dal compositore polacco nel secondo libro degli Studi op. 25, composto tra il 1835 e il 1837, dove rispetto al primo libro, che servi a Chopin come fucina musicale per migliorarsi come compositore, prende corpo una maggiore maturità compositiva. Le difficoltà tecniche che ivi vengono affrontate sono per lo più le stesse, ma affrontate con una visione allargata e con prospettive nuove. Nel secondo libro c’è una maggiore attenzione alla mano sinistra (sette studi su dodici riguardano la tecnica della stessa, procedendo a volte insieme alla destra), un maggior uso del contrappunto ritmico (vedi studio n. 2 in Fa minore, dove al ritmo incessante della destra si oppone la linea di terzine alla sinistra), un’attenzione maniacale verso la ricerca dell’effetto timbrico (studio n. 1 in La bemolle maggiore che Schumann definì “un’arpa eolica con tutte le scale” o n. 11 in La minore). Chopin fu in tal senso e in certo qual modo, il precursore delle sperimentazioni timbriche che affronterà in seguito Debussy (basti pensare allo studio per “le sonorità opposte”) e trasformò definitivamente l’antica tradizione virtuosistica fine a se stessa rivolgendola verso una più alta dignità artistica.
Dopo di lui, tutti i compositori che si prestarono a scrivere per tale genere ebbero come punto di riferimento i suoi Studi; ovviamente nessuno raggiunse i livelli eccelsi del polacco, ma questo riguarda esclusivamente la loro inferiorità come compositori e musicisti (pur nella loro grandezza) ad eccezione come già detto di Debussy, i cui lavori sono ancora oggi, a mio parere, molto sottovalutati. Nessuno riuscirà più ad eguagliare gli studi chopiniani, ricchi di una mirabile quanto unica inventiva, di un uso pressoché totale della tastiera, di un’esplorazione tonale e armonica mai più ritrovata nel rapporto tecnico-espressivo. Di tutto ciò non tutti si resero conto immediatamente tra i suoi contemporanei, ma Liszt lo riconobbe quale fondatore di tale genere e riconobbe nelle sue opere una perfezione insuperabile; e ancora Berlioz osservò che in questi piccoli brani era presente una concentrazione unica delle più alte qualità stilistiche chopiniane e delle sue più folgoranti ispirazioni. Chopin con i suoi studi da concerto (questo diverranno d’ ora in avanti), aprì la strada a nuovi intendimenti compositivi, a un nuovo modo di intendere il virtuosismo, a una diversa concezione dello studio come arte e si aprì verso nuovi orizzonti della modulazione tonale.
(Adolfo Capitelli, 7 ottobre 2013)
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