Riflessioni su “Gli anni di galera”
- Pubblicato da Adolfo Capitelli
- il 3 Marzo 2013
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- anni di galera, Verdi
L’espressione “anni di galera” è contenuta in una lettera che il compositore inviò alla contessa Maffei il 12 maggio 1858; in tale documento Verdi parlò di un periodo della durata di sedici anni, comprendente dunque, anche Rigoletto, Trovatore e Traviata. Gli anni di galera furono quel periodo nel quale l’artista di Busseto, una volta salito alla ribalta grazie a Nabucco (1842), non volendo farsi sfuggire il successo e la fama acquisita cominciò quindi a comporre opere preoccupandosi in modo maniacale della scelta di soggetti ben accetti dal popolo (adattandoli e adattandosi alle esigenze delle città in cui le opere andavano rappresentate) e della preparazione dei cantanti in base ai quali spesso fu legata la scelta di un libretto piuttosto che di un altro. Furono anni in cui, lontano da un’ispirazione drammatica intima fu sempre aperto a compromessi pratici, anni in cui dopo un periodo di immense sofferenze (la perdita dell’intera famiglia in soli due anni e il disastroso esito della sua seconda opera Un giorno di regno) non ebbe né il tempo né la voglia di pensare a innovazioni e di dedicarsi a ideali a aspirazioni personali; nelle lettere di quel periodo il compositore è assalito dalla preoccupazione di non annoiare il pubblico per cui “è meglio peccare di vivacità che languire” (lettera ad un impresario teatrale del 18 aprile 1848).
Anche se in quel periodo spiccarono per forza drammatica e fascino le due opere Macbeth e Luisa Miller, contenenti senz’altro passi molto espressivi caratterizzati da una profonda intensità melodica, fu con Nabucco che Verdi ottenne il successo; e fu con quest’opera che raggiunse il massimo dell’unità organica, almeno fino alla composizione di Rigoletto. Dunque, nonostante i limiti mostrati nelle opere di questo periodo, esistono dei passaggi in cui l’ispirazione musicale, in un improvviso impeto interiore prende il sopravvento e il semplice teatro, inteso come pura messa in scena di effetti esteriori, lascia il posto alla drammaticità, a parentesi di puro lirismo ove i personaggi vivono appieno il dramma in atto e diventano anima e corpo lasciando da parte la fredda e arida immediatezza pratica. Anche se lontano ancora dagli anni della piena maturità e dagli ultimi capolavori nel compositore degli anni di galera convivono entrambe le inclinazioni, anche se con netta predominanza del Verdi compositore di teatro piuttosto che del Verdi compositore di drammi teatrali. Questo fin quando il seme dell’ispirazione drammatica non sarà messo in lui da una lettura che lo libererà da ogni sorta di compromesso e lo indirizzerà verso un ampliamento e un affinamento delle sue intuizioni psicologiche nutrite dalle sue stesse esperienze di vita e trasfigurate negli irreali drammi scenici.
(Adolfo Capitelli, 3 marzo 2013)
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